sabato 7 aprile 2012

Razza e colore ....dobbiamo fare informazioni.


Schiave in Libano: storia di Alem, migrante etiope
7 aprile 2012
Il Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha esortato il governo libanese a indagare sulla morte di una cameriera etiope che si è suicidata pochi giorni dopo essere stata picchiata da un uomo a Beirut. Pubblichiamo la sua storia.


articolo pubblicato da NenaNews

Giorgia Grifoni

Dicono che la schiavitù sia stata abolita più di un secolo fa. Nei Paesi del Medio Oriente, però, è un fenomeno destinato a durare ancora per molto tempo. Si alimenta con i petrodollari e cresce al ritmo della ricchezza, come nelle monarchie del Golfo. In altri casi, come in Libano, si nutre di esibizionismo e di nostalgia per un passato di benessere materiale e culturale. E’ veicolato dalla disperazione del Corno d’Africa e completamente privo di tutela legale. Proprio ieri, alcune dozzine di “lavoratori” etiopi si sono radunate davanti al loro consolato a Badaro protestando contro la totale noncuranza della loro rappresentanza diplomatica nel Paese dei Cedri. E soprattutto contro chi ha permesso che una donna etiope, Alem Dechasa-Desisa, venisse picchiata e trascinata in auto da un gruppo di uomini libanesi davanti alla propria sede senza fare nulla.

All’inizio del mese di marzo, compare un video su Youtube che mostra una giovane etiope costretta da un uomo a entrare in una macchina. La ragazza si contorce, piange, ma tutt’intorno la gente non interviene, compresa la persona che gira il filmato. L’uomo che la picchia è identificato come Ali Mahfouz. La scena si svolge nel quartiere di Badaro, davanti al consolato etiope: nessuno esce per aiutare la donna. Alem viene ricoverata all’ospedale di Deir al-Salib, nel reparto psichiatrico, dove viene trovata impiccata il 14 marzo. In Etiopia, Facebook si infiamma. Chi se la prende con i barbari arabi e musulmani, chi spera che anche l’incivile Libano venga conquistato da Israele e chi invece ricorda che le crudeltà non hanno credo, razza né colore. Quanto ad Ali Mahfouz, intervistato dalla televisione LBC, ha spiegato che stava solo cercando di far salire la donna in macchina per farla espellere dal paese. Ma lei era pazza, e aveva già tentato il suicidio in casa, mentre lui cercava solo di trattarla “umanamente”. Alcuni giornali hanno parlato della storia personale di Alem, lasciata dal marito ad Addis Abeba che ha avuto la custodia dei loro tre figli. Si punta sulla pazzia della donna. Troppo comodo, invece di soffermarsi sulla condizione dei lavoratori stranieri in Libano.

Sono circa 200.000 i lavoratori immigrati. Spesso entrano nel paese illegalmente, passando per il Sudan, e arrivano in un luogo che viene venduto loro come “multiculturale” dai soliti agenti dell’immigrazione clandestina. La maggior parte dei migranti, circa il 75%, è composta da donne giovani: dicono loro che andranno a fare le infermiere o le insegnanti. Invece viene loro tolto il passaporto e vengono assegnate, tramite agenzie, alle famiglie libanesi per le quali dovranno lavorare. Non sempre famiglie ricche, si badi bene, ma anche quelle dal reddito medio: un’attività commerciale nel quartiere di Tariq el-Jdeideh, un appartamento di circa 80 mq, una madre casalinga e due bambini piccoli. Per così poco c’è bisogno di una “collaboratrice domestica”.

Dormono in casa: a volte nella stanza degli ospiti, altre sul divano o addirittura per terra, sotto il tavolo della cucina. Fanno da mangiare per tutta la famiglia, ma quando arriva il loro turno spesso sono costrette a cucinare cose diverse, quel poco che si possono permettere di comprare per loro o un prodotto di scarsa qualità che il padrone ha loro destinato. Lavorano anche sette giorni su sette, per mesi interi, senza vacanze e tutto quello che rimane loro lo mandano a casa, in Etiopia. Sempre che vengano pagate: anche qui non si sognano retribuzioni giuste, ma retribuzioni e basta. Sono vittime della gelosia delle mogli libanesi e delle voglie sessuali del loro padrone. Vengono segnalati ogni giorno casi di abusi tra le mura: per un paese in cui una donna su tre è vittima di violenza domestica, le cameriere non se la passano poi tanto bene.

Il consolato è accusato di non fare nulla per tutelare i propri cittadini. Nel corteo di ieri le persone si lamentavano non solo del fatto che gli ufficiali della rappresentanza abbiano guardato impotenti un abuso compiuto su una loro concittadina, ma anche della loro tendenza a non aiutare i richiedenti se non è per guadagno. Spiega una ragazza intervistata dal quotidiano Daily Star che “se un etiope entrato illegalmente dal Sudan in Libano avesse dei problemi nel Paese, il consolato rifiuterebbe assistenza, mentre se la stessa persona volesse rinnovare il proprio passaporto, sarebbero ben lieti di aiutarla”. Storie di telefoni riagganciati o chiamate ignorate quando si prova a contattare la sede sono all’ordine del giorno. A Beirut non si tutelano neanche i diritti delle cittadine violentate in casa dal marito, figuriamoci quelli di un esercito di invisibili. Nel 2011 è stata presentata al Governo una proposta di legge sulla collaborazione domestica: prevede riposi notturni di 9 ore in ambienti non promiscui, avere un giorno di riposo settimanale e un salario pagato regolarmente. Oltre ad avere un permesso di soggiorno regolare, che sta al padrone ottenere. Nessuna menzione, come al solito, agli stupri e agli abusi su di loro.

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