Il petrolio agita le acque sudanesi
by Harry Verhoeven
Published in Analisi & Reportages, Italiano,
on 10/12/2010
Country: Sudan,
Website: Guardian,
Tags: Economics, Food Insecurity, Oil Issues, Referendum, secession, Sudan
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10/12/2010
Original Version: Oil on Sudan’s troubled waters
Mentre il Sud Sudan si appresta a votare per la secessione dal nord, le risorse petrolifere nel sud potrebbero scatenare il conflitto; il loro valore è tuttavia sovrastimato, visto che tali risorse potrebbero esaurirsi entro pochi anni – sostengono i ricercatori Harry Verhoeven e Luke Patey
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Il prossimo gennaio il popolo sudanese voterà in un referendum per decidere se separare o meno il nord dal sud del paese. L’indipendenza del Sud Sudan lascerebbe il governo di Khartoum senza la sua principale fonte di sostentamento: quasi 500.000 barili di petrolio greggio al giorno. Poiché la maggior parte del petrolio sudanese si trova nel sud del paese, ciò solleva la questione della sopravvivenza del nord senza i miliardi di dollari provenienti dalla vendita del petrolio.
L’amministrazione Obama teme che il governo sudanese possa intervenire militarmente per mantenere il controllo sui giacimenti petroliferi – forse riaccendendo nel paese la guerra civile conclusasi nel 2005. La realtà, ad ogni modo, è più complessa. Il petrolio potrebbe effettivamente portare alla guerra, eppure vi sono due presupposti discutibili alla base dell’idea di un conflitto alle porte: da un lato la certezza che il sud verrebbe “benedetto” dalla ricchezza proveniente dal petrolio, dall’altro che il nord, senza i dollari del greggio, non sarebbe autosufficiente.
Se il Sud Sudan dovesse decidere di continuare per la propria strada, il partito del petrolio, dopo l’indipendenza, avrebbe vita breve. Malgrado il ministro per il petrolio, Lual Deng, speri che la produzione possa aumentare fino a raggiungere i 650.000 barili al giorno, tale ambiziose previsioni hanno una lunga tradizione di fallimenti in Sudan.
Le stime del ministero del petrolio danno al Sudan solo un decennio di produzione commerciale, e l’FMI sostiene che il livello di rendimento declinerà dal 2012-2013 in poi. La compagnia svedese Lundin, insieme con la indiana OVL, si sono ritirate dalla zona meridionale che vantava un alto potenziale di rendimento, dopo aver trivellato svariati pozzi rivelatisi asciutti. A meno che la compagnia francese Total non riesca a fare un colpo grosso con la sua concessione petrolifera, le speranze di un Sud Sudan che galleggi su un oceano di greggio sono poche.
Ciò potrebbe avere un enorme impatto sulla produttività di un Sud indipendente. Con il 98% delle entrate statali provenienti dal petrolio, e con le riserve che potrebbero diminuire pericolosamente, il futuro economico del Sud Sudan, che non ha uno sbocco sul mare ed è privo di infrastrutture, appare piuttosto sconfortante. Così, potrebbe essere proprio Khartoum a ridere per ultima, qualora il sud ottenesse l’indipendenza.
Quando gli islamisti presero il potere nel 1989, il Sudan era economicamente ridotto sul lastrico. Il cibo ed il carburante mancavano perfino nella capitale. Uno spietato programma di ripresa, che ha messo in ginocchio i potenti sindacati, è riuscito però a stabilizzare l’inflazione e a prevenire un tracollo come nel caso somalo.
La combinazione di politiche economiche non ortodosse ed esportazioni di greggio hanno portato spettacolari miglioramenti. La Banca Mondiale ha riscontrato, fra il 1999 ed il 2008, che l’economia sudanese è cresciuta di cinque volte: il petrolio ha infatti permesso un’enorme espansione delle infrastrutture materiali e sociali, compreso il raddoppio del sistema stradale, della produzione di energia elettrica ed un forte aumento del numero degli iscritti nelle scuole primarie. Tali risultati sono notevoli, soprattutto considerando le durature sanzioni americane ed un enorme montagna di debiti accumulati. Essi hanno permesso al partito di governo, il National Congress Party (NCP), di costruire una fitta rete di appoggi nell’entroterra del nord del paese.
La crescita economica del Sudan è stata profondamente diseguale, e molte regioni rimangono scandalosamente povere, private addirittura dei servizi più basilari. Eppure bisogna ammettere che alcuni collegi elettorali del nord non hanno mai vissuto periodi migliori di questo. Con gli anni si sono dimostrati profondamente leali al regime. Il petrolio ha rappresentato un elemento chiave di questo successo, ma Khartoum sa che le riserve potrebbero alla fine esaurirsi, e si sta preparando da tempo ad un futuro senza petrolio. Il regime ha investito miliardi di dollari in un programma di dighe tanto ambizioso quanto controverso (la costruzione della sola diga di Merowe è costata 3 miliardi di dollari, circa il 40% degli investimenti pubblici totali fra il 2005 ed il 2008) insieme ad una strategia associata al rinnovamento del settore agricolo.
Khartoum spera di attrarre più di un miliardo di dollari di investimenti esteri, nel corso dell’anno a venire, per i progetti agricoli intorno al Nilo. Kuwait, Arabia Saudita e Giordania, spinti dalla preoccupazione dell’aumento del prezzo mondiale dei generi alimentari, stanno investendo nel nord del Sudan. Anche la Cina, con le sue aziende in continua ricerca di terre, sembra dover giocare un ruolo importante nel futuro agricolo del paese.
Questi sono elementi importanti nel ricalibrare la politica economica del Sudan, che dovrebbero aiutare a sopportare un’eventuale separazione fra il nord ed il sud del paese. Gli islamisti si stanno focalizzando sulle aree chiave dei propri territori, dove si concentrano gli investimenti, i servizi e l’agricoltura da irrigazione. Le aziende che dominano il panorama economico non-petrolifero del paese sono co-dirette da membri dell’NCP e partecipano alla spinta verso l’idro-agricoltura portata avanti dal regime. La partecipazione della Cina, degli investitori dei paesi del Golfo e delle élites imprenditoriali globalizzate, sta aiutando l’NCP a radicare la propria egemonia politica.
Il ruolo del petrolio non è quello che sembra. Khartoum ama i dollari e dovrà affrontare un crollo degli scambi con l’estero quando le riserve inizieranno ad esaurirsi. Ciò ha importanti implicazioni per gli attori internazionali che dovranno intervenire per mantenere la pace in Sudan.
Se da un lato è assolutamente necessario che venga rispettato il diritto del sud all’autodeterminazione, è altrettanto fondamentale che la comunità internazionale adotti una visione a lungo termine per lo sviluppo e la governance del Sudan. Nel breve periodo, la comunità internazionale dovrebbe continuare a sostenere la condivisione delle entrate provenienti dal petrolio tra Khartoum, Juba e le regioni produttrici. Qualunque sia il risultato del referendum, condividere il petrolio aiuterebbe a mantenere sotto controllo le tensioni, dando all’ NCP e allo SPLA/M (Sudan People’s Liberation Army/Movement) un’occasione per continuare il dialogo e raggiungere un compromesso.
Sul lungo periodo, la sfida consiste nell’aiutare il Sudan a costruire un futuro al di là del greggio. Nel sud c’è bisogno di una forte spinta a favore di uno sviluppo sostenibile e di una amministrazione efficiente che aiuti a prevenire le dinamiche del resource-curse (la “maledizione delle risorse”, il fenomeno per cui paesi con abbondanti risorse naturali non riescono a svilupparsi economicamente (N.d.T.) ) come accade in Nigeria. Nel nord ciò implica il sostegno agli sforzi del governo per rilanciare l’agricoltura, accertandosi però che la crescita sia divisa equamente e senza indebolire le comunità locali.
Le riserve petrolifere del Sudan sono sicuramente importanti e potrebbero innescare nuovi conflitti, ma non sono infinite e potrebbero essere usate per favorire la pace.
Harry Verhoeven è un ricercatore press oil Dipartimento di Politica e Relazioni Internazionali presso l’Università di Oxford; Luke Patey è un ricercatore presso il Danish Institute for International Studies
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